Una giovane donna ha subito violenza, poi lo stupratore ha deciso di uccidere e quindi carbonizzare la sua vittima. Rinvenuto ciò che resta del cadavere, la polizia riesce a risalire all’identità della poveretta, ma non a quella del suo carnefice. La madre della ragazza, ovviamente già duramente provata da quanto accaduto, non riesce a non colpevolizzare gli agenti: li ritiene infatti inadeguati e pigri. La collera della povera donna è tale che un giorno, ormai persa ogni speranza di avere finalmente giustizia, affitta tre dei cartelloni più visibili dalla città e li usa per scrivere ogni genere di accusa ai danni del capo della polizia. Le forze dell’ordine dal canto loro non adottano certo comportamenti esemplari: gli agenti infatti compiono continuamente gesti che ne denunciano la scarsa disciplina e la tendenza a pregiudizi razziali, per non parlare poi della disposizione all’abuso di potere. Per la cronaca: l’atroce delitto non avrà mai soluzione e mentre la madre della vittima continua, quasi per hobby, a lottare contro una giustizia sempre più latitante, la polizia sembra infischiarsene tanto delle vittime quanto dei carnefici per non parlare poi dei suoi detrattori. La storia, seppure atroce, è pervasa da una sottilissima vena ironica che lascia lo spettatore basito e perplesso. Tuttavia, proprio per questa sua prerogativa, la pellicola si pone a metà strada tra il thriller e la commedia noir: i continui colpi bassi che la madre inconsolabile assesta alla polizia, così come quelli che le forze dell’ordine rifilano alla donna, hanno un qualcosa di sarcastico, quasi divertente che contribuisce a dare un’aria sinistra all’intero film. “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è l’ultima fatica cinematografica del regista Martin McDonagh e sembra essere stata accolta con entusiasmo dall’esigente pubblico dell’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.